Il rischio americano è la terza di un ciclo di pubblicazioni sulla storia mondiale fra il 1945 ed il 2001, curate da Sergio Romano.
Già Ambasciatore alla NATO e a Mosca, ora editorialista del Corriere della Sera e di Panorama, nonché prestigioso opinionista, Romano sviluppa da tempo ponderate analisi muovendo da un presupposto dichiarato che pare costituire, per chi segue i suoi interventi sulla stampa e i suoi libri, la sua preoccupazione principale. Nella nuova fase della politica internazionale, iniziata dopo l’undici settembre, l’Europa è stata assente o insignificante o, ancor peggio, non ha agito con l’autorità di cui avrebbe potuto disporre.
La somma delle politiche estere dei singoli Paesi europei non è riuscita a fare “massa critica”, né è stata in grado di proporre scelte o prospettive diverse da quelle che Washington sta imponendo al mondo. Il ruolo dell’Europa, insomma, di fronte al gigante americano. Argomento sviluppato con parole e concetti che risuonano come macigni tra le pagine di un testo agile, scritto com’è consuetudine con chiarezza e semplicità e al tempo stesso veicolo di una visione assai chiara e netta degli equilibri internazionali, che intravede l’Europa come unica possibilità per avviare una fase multipolare che superi l’unilateralismo di questi anni, fonte di pericoli per la stabilità mondiale.
Il primo piano dell’Europa è tuttavia specchio di una impotenza politica e diplomatica.
Incapaci di un rapporto dialettico costruttivo con gli Stati Uniti, eventualmente per correggerne errori di prospettiva, gli europei finiscono per accettarne o assecondarne la politica sic et simpliciter.
D’altro canto, un’Europa babelica e disunita non può che essere corresponsabile dello squilibrio di forze che gioca a favore dell’unica super-potenza.
Se questa è la condizione dell’Unione, e/o dei singoli Stati che la compongono, l’Ambasciatore ragiona sulla condizione americana, storicizzandola. Da sempre, è la sua opinione, ogni grande potenza si spinge sino all’estremo limite delle sue possibilità e si arresta soltanto dove trova una resistenza capace di tenerle testa.
La fine della guerra fredda ha com’è noto determinato la preponderanza della potenza americana, trascinata dalle proprie inclinazioni morali, dai propri obiettivi, perseguiti in nome di un principio ideale.
La potenza economica e le basi militari sparse nel mondo hanno fatto il resto, estendendo lo spazio giuridico e militare della sua influenza. Se non si vuole che sia raggiunto il punto critico cui prima accennavamo, non esiste altra alternativa che creare una forza che possa fungere da contrappeso critico.
D’altro canto, l’America sembra non comprendere, ad esempio, che il terrorismo è per molti aspetti uno degli effetti quasi ineludibili della sua straordinaria potenza, che non può non avere nemici.
E se il grande Paese nordamericano dispone di un arsenale incomparabile e impareggiabile, è inevitabile che qualche nemico cerchi di colpirlo là dove, nonostante la sua enorme potenza, è ancora vulnerabile.
Ma se la risposta è la guerra, questa è quasi sempre inefficace, inutile e controproducente. L’Autore difende in modo convinto la tesi antinterventista, d’altro canto appoggiata anche prima della guerra in Iraq, fase cruciale nella quale com’è noto il rapporto Stati Uniti – Europa ha vissuto alcune tensioni e divisioni. Egli ritiene che iniziare una guerra significhi avere di fronte nuovi avversari e nuovi problemi, a volte anche più minacciosi e intricati di quelli di cui ci si voleva sbarazzare.
Sergio Romano lancia, in conclusione, un chiaro messaggio all’Unione europea affinché si risvegli dallo stato di impotenza nel quale versa, per non correre il rischio di un eterno appiattimento alle decisioni del colosso d’oltreoceano. È arrivato il momento di confrontarsi in termini critici con l’ambizione statunitense di realizzare una strategia globale.
L’Europa dovrà ora ancor più di prima unirsi per dire al mondo che i problemi possono essere affrontati con altri metodi ed altro stile. Tra la fine di questo anno 2003 e l’inizio del 2004 l’Europa avrà una propria Costituzione, in cui saranno definiti gli strumenti e le regole di una politica estera comune. Una speranza per aprirsi, secondo l’auspicio di Romano, ad un ruolo più significativo ed incisivo, per uscire dall’unilateralismo e arricchire lo schieramento delle democrazie di culture diverse per storia e tradizione.
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